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Lo studio della moneta di quel periodo d'Europa, che dall'età comunale conduce alle soglie della modernità, costituisce l'occasione per una duplice riflessione: non solo sull'essenza del diritto del mercato, ma ancor prima sulle origini della società occidentale. Una società che si istituisce sulla soppressione di ogni gerarchia fra uomo (servo) e uomo (padrone) è destinata ad erigere quale nuovo "dio" il trittico diritto, mercato e moneta. Fra uomini eguali, l'unica signoria tollerabile è quella impersonale del diritto chiamato ad assicurare la tenuta di uno scambio mediato attraverso la moneta. Ma il diritto del mercato rivela una natura da Giano bifronte. Ad una istanza di "razionalità economica" diretta ad assicurare la calcolabilità monetaria di uno scambio fra eguali si contrappone una "razionalità politica" diretta, al contrario, a preservare la superiorità degli uni rispetto agli altri. Quelle gerarchie, di cui la modernità celebrava la definitiva soppressione, inevitabilmente ritornano sotto forma di privilegio elargito ad un ceto di mercanti "amici del principe". E fra i mercanti cui il diritto accorda questo privilegio (garanzia di diseguaglianza) la posizione d'onore spetta a quelli più vicini al misterioso processo di produzione della moneta: i mercanti banchieri. Questo libro si occupa di quell'età tardo-medievale che, pur in un contesto di frammentazione politica, già esperisce una forma di globalizzazione economica non dissimile da quella attuale.